Effetti collaterali dei nuovi antipsicotici


1.

Le bugie hanno le gambe corte. Il lancio dei nuovi antipsicotici (Leponex, Risperdal, Zyprexa, Clopixol, Seroquel, ecc.), dal 1990 ad oggi, è avvenuto all'insegna di due "vantaggi" fondamentali rispetto a quelli tradizionali: la maggiore efficacia terapeutica e una minore incidenza di effetti collaterali.

Per quanto riguarda il primo vantaggio, esso viene di continuo empiriamente confermato dagli psichiatri, ma le ricerche dedicate ad un'analisi comparata di trattamenti con antipsicotici tradizionali sembrano, se non invalidarlo del tutto, minimizzarlo. I sintomi positivi (per es le allucinazioni) regrediscono, quando regrediscono, nella stessa misura. I sintomi negativi (inibizione, isolamento, mutacismo, ecc.), sui quali si anticipava un effetto nettamente maggiore, sembrano in realtà più sensibili, in una certa misura, agli interventi socioassistenziali.

Il secondo criterio, meno soggetto alla valutazione clinica degli psichiatri, comincia ad essere contestato in maniera inoppugnabile.

Gli effetti collaterali degli antipsicotici sono di tre generi: neurologici, metabolici, endocrini.

Tra gli effetti neurologici i più gravi sono indubbiamente quelli extrapiramidali, caratterizzati da movimenti involontari (a mo' di tics) della lingua, della bocca, dei muscoli facciali e delle dita, che, in conseguenza di trattamenti protratti, possono realizzare una sindrome discinetica irreversibile.

Per questo aspetto, i nuovi antipsicotici sembrano di fatto avere un'incidenza minore. C'è da considerare però che la discinesia insorge dopo vari anni di trattamento farmacologico. Essendo gli antipsicotici in questione entrati in commercio da alcuni anni, c'è solo da sperare che il futuro confermi la loro scarsa incidenza sui centri dei movimenti involontari.

Gli effetti metabolici riguardano il peso corporeo, la glicemia, la lipidemia, ecc. Come sanno tutti coloro che hanno operato in ospedale psichiatrico, gli antipsicotici tradizionali producevano con assoluta costanza obesità e con una certa frequenza diabete e iperlipidemia (con conseguenti infarti, ictus, ecc.). I nuovi antipsicotici sono stati lanciati sul mercato come farmaci destinati ad incidere in misura molto minore sul metabolismo.

Le ricerche recenti non solo smentiscono questa previsione: addirittura la invertono. Rispetto agli antipsicotici tradizionali (per es. il Serenase), i nuovi antipsicotici, con l'unica eccezione della quetiapina (Seroquel), determinano un aumento di peso costante, più rapidamente rispetto agli antipsicotici tradizionali. Per quanto riguarda il diabete e l'iperlipidemia, il rischio è di gran lunga maggiore (sempre eccezion fatta per il Seroquel).

Gli effetti endocrini sono rilevanti soprattutto a carico della sfera sessuale: pressocchè costante è la diminuzione della libido, che nell'uomo può giungere all'impotenza, molto frequenti risultano le alterazioni del ciclo mestruale come pure la stimolazione delle ghiandole mammarie. Poche ricerche comparate sono state condotte a questo riguardo. L'esperienza clinica sembra però attestare che gli effetti endocrini dei nuovi antispicotici siano non meno incisivi rispetto a quelli tradizionali, se non addirittura maggiori.

Nella loro fredda oggettività, i dati sono inconfutabili, al punto che, negli Stati Uniti, la Fad (Food and Drug Administration) è intervenuta obbligando le case farmaceutiche a segnalare gli effetti collaterali, soprattutto quelli metabolici. Come se non bastasse, ben quattro organizzazioni professionali(American Diabetes Association, American Psychiatric Association, American Association of Clinical Endocrinologists, and North American Association for the Study of Obesity) sono intervenute esse stesse segnalando il pericolo dell'obesità e del diabete conseguente all'uso dei nuovi antipsicotici.

Certo, il pericolo iatrogenetico può essere sempre rigettato dagli psichiatri in nome del fatto che il fine - il controllo dei fenomeni schizofrenici - giustifica i mezzi. Nel contesto statunitense poi, laddove l'obesità e il diabete sono malattie a larghissima diffusione, il danno può essere facilmente alibizzato, vale a dire ricondotto ad una predisposizione genetica, a eccessi alimentari, ecc.

Non potendo negare l'evidenza dei fatti, gli psichiatri statunitensi, in accordo con le case farmaceutiche, rimandano un giudizio definitivo all'anno prossimo, allorché saranno diffusi i dati di un'inchiesta promossa dal National Institute of Mental Healt, avviatasi nel 1999 e destinata a concludersi nel dicembre 2004. Se questa inchiesta, come sembra probabile, confermerà i dati per ora ricavati da ricerche parziali, la FAD sarà costretta ad intervenire più decisamente. L'obesità, il diabete e l'iperlipidemia sono infatti malattie che accorciano più o meno incisivamente la vita dei pazienti, e comportano, tra l'altro, spese per cure specialistiche che i pazienti non sono in grado, negli Stati Uniti, di sostenere.

Non c'è alcun bisogno di aspettare i risultati dell'inchiesta del NIMH per esprimere un giudizio. A questo si può arrivare anche in virtù della logica.

Nonostante i neopsichiatri ripetano a spron battuto che la natura organica della schizofrenia è stata accertata al di fuori di ogni ragonevole dubbio, è un fatto che la patogenesi di essa è ancora misteriosa. L'ipotesi più accreditata rimane quella che l'attribuisce ad una disfunzione del sistema dopaminergico, senza escludere un coinvolgimento di quello serotoninergico. Il problema è che entrambi i sistemi sono complessi: per un verso, essi hanno un'estensione che coinvolge aree molto ampie del cervello, sia a livello sottocorticale che corticale; per un altro, essi riconoscono molteplici recettori, ciascuno dei quali svolge una sua funzione specifica.

In difetto di una ipotesi patogenetica univoca e convalidata scientificamente, gli antipsicotici non possono agire come un proiettile mirato su di un bersaglio: essi equivalgono ad una carica di pallettoni. A differenza degli antipsicotici tradizionali, che inibivano prevalentemente un recettore dopaminergico, i nuovi antipsicotici agiscono su più recettori. La loro minore incidenza sui centri dei movimenti involontari, che permette di comprendere il più raro sopravvenire di effetti extrapiramidali (la sindrome discinetica), corrisponde inesorabilmente ad una maggiore incidenza su aree cerebrali più ampie, coinvolte evidentemente nella regolazione del metabolismo.

Sparando a pallettoni, la possibilità di colpire il bersaglio aumenta, ma cresce anche la possibilità di incidere su regolazioni del metabolismo che nulla hanno a che vedere con la schizofrenia. L'effetto terapeutico, posto che sia maggiore rispetto agli antipsicotici tradizionali, si paga insomma al prezzo di effetti iatrogenetici indesiderati, che nel complesso sono più gravi di quelli determinati dai vecchi antipsicotici perché accorciano inesorabilmente la vita dei pazienti.

2.

Il principio per cui il fine giustifica i mezzi è intrinseco da sempre alla pratica psichiatrica. In rapporto alla schizofrenia, il fine in questione è il contenimento sintomatologico di una malattia cerebrale cronica la cui guarigione è ritenuta ancora impossibile e la cui evoluzione senza copertura farmacologica darebbe luogo più precocemente ad esiti disgregativi della personalità. Tale fine viene perseguito attraverso una metodologia ormai standardizzata: la diagnosi precoce e la somministrazione a tempo indeterminato di antipsicotici (associati spesso con equilibratori dell'umore, antoidepressivi, ansiolitici).

Ho scritto già più volte che questa metodologia è inesorabilmente iatrogenetica. Primo, perché sollecita gli psichiatri ad essere sempre più attenti nel valutare i sintomi, i vissuti e i comportamenti espressivi di un disagio psichico al fine di cogliere in essi quel quid di atipico (psicotico) che consente di anticipare l'avvento di una schizofrenia conclamata. Il problema è che, adottando quest'ottica del sospetto, facilmente il dubbio prende corpo. Dato il principio per cui più il trattamento è precoce più l'evoluzione della malattia è meno grave, spesso gli antipsicotici vengono prescritti nell'attesa che l'evoluzione clinica confermi o meno il sospetto.

Il secondo aspetto è correlato al primo. Definire la schizofrenia una malattia del cervello significa che i sintomi sono immediatamente espressivi del processo morboso. In conseguenza di questo, il trattamento farmacologico viene sempre avviato sulla base del principio melius abundare quam deficere, cioè a dosaggio pieno (in termini tecnici, terapeutici). Si danno due possibilità: che i sintomi regrediscano o che persistano. Nel primo caso, il successo terapeutico giustifica la prosecuzione a tempo indeterminato del trattamento farmcologico. La regressione dei sintomi, infatti, viene assunta come prova che il processo morboso esiste: trattandosi di una malattia cronica non ha senso prescindere dal principio di cui sopra. Nel caso in cui i sintomi persistono è ancora peggio: le dosi farmacologiche vengono progressivamente aumentate, spesso si prescrivono più antipsicotici contemporaneamente.

E' probabile che questa metodologia debba andare incontro a qualche cambiamento, a partire dagli Stati Uniti. Colà infatti si ammette (come peraltro ovunque) che le terapie farmacologiche possano dare luogo ad effetti collaterali anche seri. Perché esse siano ritenute lecite, però, tali effetti non devono tradursi in un danno della salute irreversibile. Ora, per quanto riguarda i nuovi antipsicotici, è sub-judice la possibilità che l'obesità e l'iperlipidemia siano reversibili; il diabete di sicuro non lo è.

Per ora gli psichiatri, preso atto dei primi dati, si limitano ad un criterio di cautela. Ricostruiscono le storie familiari dei pazienti alla ricerca di un'ereditarietà per il diabete, l'obesità, l'iperlipidemia (e accidenti vascolari vari); sottopongono i pazienti a screening di laboratorio per escludere una predisposizione; ecc. Se i dati delle ricerche dovessero essere confermati da quella in atto sotto l'egida del NIMH, è probabile che i criteri prescrittivi dovrebbero essere modificati: Due antipsicotici in particolare - il Leponex e lo Zyprexa -, di larga diffusione, rischiano di perdere fette consistenti di mercato.

3.

Chiunque ha pratica di assistenza psichiatrica territoriale, pubblica e privata, sa con quale disinvoltura gli psichiatri utilizzano, posta una diagnosi di schizofrenia, gli antipsicotici a dosi elevate e protratte. In seguito alla propaganda industriale che alcuni di essi (i baroni in cattedra) alimentano con ricerche ad hoc (prezzolate), le prescrizioni fanno sempre più massicciamente ricorso ai nuovi antipsicotici. Il mito dei minori effetti collaterali contribuisce, infine, all'uso di dosaggi elevati e protratti.

Indipendentemente dalle ricerche cui ho fatto cenno, molti pazienti, nel corso degli anni, hanno denunciato gli effetti collaterali soggettivamente percettibili, in particolare l'aumento di peso, la bulimia, la diminuzione della libido, le alterazioni del ciclo mestruale, la galattorrea, ecc. Tali proteste sono cadute nel nulla perché, nell'ottica dei neopsichiatri che devono curare una malattia mentale che i pazienti in genere negano di avere e di cui essi conoscono la gravità, non è comprensibile che i pazienti facciano tante storie perché vedono il loro corpo deformato e la loro fisiologia sessuale alterata.

Ora comincia ad esserci la certezza che i nuovi antipsicotici, almeno alcuni di essi, producono danni metabolici irreversibili che accorciano i tempi della sopravvivenza. E' improbabile che questa certezza scuota il mondo psichiatrico e modifichi dei protocolli terapeutici che vengono ritenuti efficaci.

Io penso da tempo che nessun cambiamento potrà avvenire nell'ambito dell'assistenza psichiatrica se non si crea qualche associazione di pazienti ed ex-pazienti, alla quale aderiscano i pochi psichiatri critici nei confroti dell'andazzo corrente, che si proponga di tutelare i diritti dei pazienti stessi e provveda a portare in tribunale gli psichiatri che, in buona o mala fede, agiscono con leggerezza sulla pelle altrui. Tale prospettiva, allo stato attuale delle cose, appare lontanissima.

L'associazione in questione dovrebbe portare avanti un discorso critico sulla cura della malattia mentale. Tale discorso non dovrebbe escludere la possibilità e, in alcuni casi, la necessità di fare ricorso agli psicofarmaci. Assegnando loro un significato sintomatico e non terapeutico nel senso proprio della parola, il nuovo protocollo dovrebbe comportare però necessariamente una strategia incentrata su dosaggi i più bassi possibili da utilizzare per periodi limitati.

Il significato di questa strategia s'intreccia con l'approccio ai fenomeni psicotici proprio dell'analisi struttural-dialettica. Secondo tale approccio, come ho già avuto modo di scrivere, i sintomi rappresentano messaggi dell'inconscio che lasciano trasparire inequivocabilmente le matrici conflittuali psicopatologiche, i quali vengono interpretati in maniera errata dalla coscienza. Nella misura in cui le turbolenze emozionali che si associano all'attivazione dei conflitti e le interpretazioni distorte dell'io possono determinare sia uno stato di agitazione psicomotoria sia uno stato quasi confusionale sia, infine, una cristallizzazione delirante, l'uso degli antipsicotici può essere necessario e utile. Agendo infatti sul sistema dopaminergico, essi in pratica inibiscono i canali interneuronali tra inconscio e coscienza, normalmente inibiti, che l'attivazione conflittuale rende utilizzabili. Ciò consente al soggetto di impegnarsi, con l'aiuto dell'analista, a interpretare in maniera corretta i messaggi dell'inconscio e di prendere coscienza delle matrici conflittuali che li determinano, le quali rappresentano il problema da risolvere.

Se questo è vero, occorre evitare per un verso che un eventuale rimozione immediata dei sintomi dovuta ai farmaci creino una situazione che non concede più al soggetto di stare, in qualche misura, a contatto con l'inconscio, e, per un altro, che gli effetti collaterali degli psicofarmaci polarizzino l'attenzione del soggetto al unto tale che egli attribuisce tutto il suo disagio ad essi.

Entrambi questi pericoli possono essere scongiurati dal ricorso a basse dosi e dall'impegno, superate le fasi acute, di diminuirli o di sospenderli per verificare eventuali cambiamenti nel rapporto tra coscienza e inconscio.

Si tratta di una strategia flessibile, che va associata ad un intenso lavoro di ricostruzione della storia interiore del soggetto e dei conflitti strutturali che essa ha prodotto.

Da questo punto di vista, l'intervento farmacologico non pretende di curare alcuna malattia, ma solo di mettere il soggetto, con l'aiuto dell'analista, in condizione di lavorare sulla sua storia interiore e sugli assetti profondi della personalità che essa ha determinato.

E' implicito che questa strategia minimizza gli effetti collaterali, tiene conto del vissuto dei soggetti, ed evita di indurre danni metabolici irreversibili.

Non c'è attualmente alcuna speranza che una strategia del genere, che richiede una conoscenza profonda dei conflitti strutturali, dei modi in cui essi emergono a livello coscienti e dei moduli interpretativi errati che i soggetti adottando per decodificare i messaggi inconsci, possa essere adottata dai neopsichiatri che non hanno alcuna competenza a riguardo, e si attengono a criteri meramente descrittivi. Se l'inchiesta del NIMH dovesse confermare la nocività irreversibile dei nuovi antipsicotici, qualcosa almeno dovrebbe cambiare nelle procedure prescrittive attualmente adottate.